Di pioggia ne è scesa tanta, un'abitudine per me.
Al contrario essa aveva una forte influenza sull'umore di Hamdi,
che prontamente mi metteva un ombrello in testa.
A questo non ero più abituata.
Come non lo ero ad arrivare tardi ad un appuntamento,
ad aspettare ore che qualcuno arrivasse al mio;
ad un'agenda imprecisa e flessibile a seconda dell'ultima telefonata;
né a discorsi seri fatti ad un tavolino di un bar,
non mi ricordavo più come far sposare, con sottile piacere,
le parole con il cibo,
la serietà del lavoro con la leggera ebbrezza del vino;
non ero più abituata a considerare il tempo speso così "guadagnato" e non "perso".
Tirana.
Una città, un paese, un popolo
che neanche sapevo esistere, anche se credevo di saperlo.
Ho aspettato, paziente, che le cose accadessero, guardandole,
ho seguito il loro accadere, ho corso a piedi per la città,
(in quei pochi momenti in cui sono riuscita a liberarmi della mia preziosa scorta maschile),
ne ho visto i colori, respirato i profumi, percepito l'energia.
Un paese diverso dal nostro, ma poi non così tanto.
Lo capisci subito perché qualcuno ha chiamato quel piccolo taglio d'acqua che lo divide dall'Italia
"mare solido"
un mare che ha unito, prima di dividere,
un mare che ha nascosto, messo in fuga, offerto cibo e salvezza,
testimone di scambi, abbracci, sorrisi e lacrime.
Un mare che unisce due popoli fratelli, con tutte le loro differenze, anche se noi non lo sappiamo.
Per questo immagino che bisogna lasciare sempre spazio al dubbio e diffidare delle proprie certezze.
Osservare, interrogare e confrontarsi con il diverso è l'unico modo per capire, e poi semmai, giudicare.